HEAVY METAL WEBZINE PRESENTA: CIRITH UNGOL!

Di cosa siano capaci i ragazzi di Heavy Metal Webzine quando si mettono in testa di tributare una band, lo sapete già. A suo tempo vi ho parlato dello speciale sui Manilla Road, pubblicato a puntate sul loro sito ma soprattutto in una versione cartacea da leccarsi i baffi. Poi è toccato ai Broken Glazz e ora, signore e signori, è il turno dei maestri CIRITH UNGOL.

Vi attendono sessanta pagine in formato A4 a colori, piene di ogni ben di dio (un dio pagano, ovviamente) sulla band californiana, tra aneddoti, recensioni (io ho dato un microscopico contributo scrivendo quella di “Paradise Lost”), ricostruzioni dettagliate di una carriera che li ha visti conquistare la fama di cult band tra anni ’90 e 2000, poi tornare alla carica con del materiale inedito, tra cui il bellissimo album “Forever Black”.

Non troverete nulla di simile, in giro, neppure spulciando tra le webzine che affollano internet, quindi prenotate la vostra copia della fanzine (occhio, la tiratura è limitata) mandando una mail a:
info@heavymetalwebzine.it
Allo stesso indirizzo potrete rivolgere domande sui costi, i tempi e le modalità di spedizione. Conosco personalmente la gentilezza di Gianluca, Paolo e degli altri ragazzi della redazione, vedrete che vi risponderanno in tempi rapidi.
Per maggiori informazioni:
https://www.heavymetalwebzine.it/2022/01/28/hmw-fanzine-i-dettagli-del-tributo-ai-cirith-ungol/

L’invito finale non può che essere uno solo: join the legion!

VIA IL CELLOPHANE PT. 20

1) Chastain, “We bleed metal” (2015)

VALUTAZIONE:

Ultimo album per lo storico chitarrista americano, qui di nuovo in compagnia di Leather Leone. Che dire? Copertina inguardabile, un po’ Barker e un po’ Tsukamoto, più adatta a un album industriale che a uno di power americano. Per fortuna il contenuto risulta di gran lunga migliore: David T. Chastain non ha più la fantasia di un tempo però scrive ancora dei bei pezzi. I primi tre, per me, chiudono l’incontro per KO tecnico. Album di maniera, forse, però suonato e prodotto benissimo e con una Leather Leone ancora capace di ruggire come ai vecchi tempi. E i pezzi ci sono, altroché: la title track è un inno, onestamente non pensavo potessi esaltarmi così tanto con un brano di Chastain, nel 2021.
Sandro Buti, com’è nel suo stile, lo ha elevato ad album quasi perfetto su Loud and Proud (voto 85 su 100):
https://loudandproud.it/chastain-we-bleed-metal/


2. Circle II Circle, “Reign of Darkness” (2015)

VALUTAZIONE:

Ultimo album dell’ormai longevo progetto di Zak Stevens. I Circle II Circle non sono mai stati dei fenomeni, però a differenza di molti io li trovo piacevoli. “Reign of Darkness” prosegue il discorso avviato col disco precedente, volto al recupero delle sonorità esplorate da Zak durante la sua esperienza coi Savatage. Risultato? Il solito, più o meno. Heavy teatrale e vagamente progressivo. Mi è piaciuta la seconda parte dell’album, da ‘Somewhere’ in poi, poiché più incisiva a livello melodico; la prima mi è parsa dispersiva. Assenti certe sperimentazioni del passato. Lo consiglio solo a chi apprezza sonorità malinconiche alla Savatage o alla Rough Silk (ma non sperate di imbattervi in una ‘Gutter ballet’ o in una ‘Circle of pain’), del resto già il titolo dell’album lasciava presagire una svolta più “oscura” nel sound.
Ai tipi di Metallus è piaciuto più che a me (voto 7,5 su 10):
http://www.metallus.it/recensioni/circle-ii-circle-recensione-reign-of-darkness/


3. Crescent Shield, “The Stars of Never Seen” (2009)

VALUTAZIONE:

Secondo e ultimo album per la band del compianto Michael Grant, cantante al quale ho dedicato uno dei miei volumetti sul metal. Anima nobile dell’universo heavy, stimato da tutti, ci ha lasciato a soli quarant’anni. Voce non da primo della classe ma senz’altro personale, guidata dal cuore più che della testa. Premiato da una bella copertina fumettistica, rispetto all’esordio quest’album mi entusiasma solo a folate: adoro l’orientaleggiante ‘Under Cover of Shadows’, poi ‘My Anger’, l’atipica ‘The Bellman’ (100% Slough Feg) e ‘Lifespan’, tutto il resto un po’ meno, pur stagliandosi al di sopra della sufficienza. Unico pezzo debole: la lunghissima ‘The Endurance’, che personalmente mi annoia. Vale comunque la pena dargli un ascolto, in tal senso segnalo una recensione ben più euforica della mia, quella di Metal.it (voto: 9 su 10), in cui tra l’altro viene indicato come brano migliore proprio quello che a me è piaciuto meno. Gusti.
https://www.metal.it/album.aspx/10427/crescent-shield-the-stars-of-never-seen/


Canzoni per farsi un’idea:

SPECIALE BLITZKRIEG


Chi ha letto il primo numero della rivista Holy Legions sa che recentemente ho avuto il privilegio di scambiare quattro chiacchiere con Brian Ross, storica voce di Satan e Blitzkrieg.

Proprio dei Blitzkrieg si parla all’interno della fanzine (nel secondo numero troverete la continuazione dell’intervista/retrospettiva) ma tra una domanda e una risposta, tra un excursus e l’altro, purtroppo non c’è stato modo di inserire le micro-recensioni che avevo preparato: l’articolo sulla band diventava troppo lungo.
Niente di quello che scrivo va perso, però, quindi rimedio qui nel mio blog.
Buona lettura!
P.S.
Escludendo quelle di “Back From Hell” e “Judge Not!”, scritte per l’occasione, tutte le altre recensioni presenti in questo speciale sono state estrapolate (e lievemente modificate) dai volumi numero 1, 3, 4, 5 e 6 di “Heavy Metal – La storia mai raccontata”.

A TIME OF CHANGES

Dopo due demo seminali e il singolo di ‘Buried Alive’, nell’81 Brian Ross scioglie i Blitzkrieg per dedicarsi ai Satan. Poi decide di tornare sui suoi passi (forse perché nel frattempo i Satan lo avevano scaricato per correre dietro a Lou Taylor, coi quali pubblicheranno “Out of Reachsotto le mentite spoglie dei Blind Fury) e con nuovi innesti dà alle stampe “A Time Of Changes” (1985), ufficialmente il primo full-length del gruppo: mix di brani vecchi e nuovi, tra i quali spicca ovviamente la canzone che dà nome alla band, diventata famosissima dopo la fedele cover realizzata dai Metallica. Prestazione non entusiasmante di Sean Taylor alla batteria (al contrario delle ottime linee di basso di Nick Moore), ma l’album fila che è un piacere; la qualità media dei brani è molto alta e non c’è un solo brano che possa dirsi meno che riuscito. ‘Blitzkrieg’, ‘Armageddon’ e la title track, poi, sono pressoché inattaccabili. Uno dei lavori più belli del periodo, e in quel periodo di grandi album ne uscivano di continuo. Peccato per lo scioglimento che ne seguirà. Ah, il pubblico che urla in “Hell to Pay” non stava assistendo a un concerto dei Blitzkrieg ma a uno dei Queen (in sostanza si tratta di uno scherzo di Ross & C.).

UNHOLY TRINITY

I Blitzkrieg riconquistano il proscenio a metà decennio con “Unholy Trinity” (1995). Della vecchia formazione ci sono solo Ross e il batterista Sean Harris, per il resto i due preferiscono circondarsi di validi turnisti o comunque di ragazzi privi di esperienze importanti alle spalle. “Unholy Trinity” costituisce un ritorno in grande stile, un album solido che in quel contesto storico risulta per forza di cose fuori dal tempo e quindi affascinante, coraggioso, orgogliosamente anacronistico. Nessuna intenzione di scrivere qualcosa di innovativo, però l’irruenza dei bei tempi è ancora al suo posto; c’è soprattutto un lotto di belle canzoni, tutte dotate di strutture semplici e vincenti, con ottimi ritornelli e cambi improvvisi, a volte ai limiti dello speed (‘After Dark’). Se l’obiettivo era quello di lasciare il segno tra i nostalgici della NWOBHM… può dirsi raggiunto. Da segnalare una cover di ‘Countess Bathory’ dei Venom, con Cronos in veste di ospite, e la title track orbitante attorno a Jack Lo Squartatore.

TEN

Ten” (1996) è considerato a malapena un nuovo album, poiché raccoglie l’EP “Ten Years Of Blitzkrieg” (1991) e solo cinque pezzi inediti. L’EP, a sua volta, tirava a lucido le vecchie ‘Blitzkrieg’ e ‘Buried Alive’, d’altronde la band aveva bisogno di scrollarsi di dosso sei anni di polvere. Comunque il full-length si difende bene e se la commistione tra sound classico e sound moderno di ‘Fighting All The Way To The Top’ non costituisce il non plus ultra del periodo, si gode alla grande con ‘The Sentinel’ e soprattutto con ‘Nocturnal Vision’, quest’ultima un omaggio in chiave NWOBHM al genio di Alice Cooper (qualcuno ricorderà il video). La band sembra in palla, sfavorita solamente da una produzione spartana che smorza l’irruenza generale, specie per quel che attiene al suono secco e spompato della batteria. Da notare invece le ottime parti di chitarra del promettente Tony J. Liddle.

THE MISTS OF AVALON

Se “Unholy Trinity” e “Ten” hanno avuto il compito di rompere il ghiaccio, ai lavori successivi viene chiesto di attirare l’attenzione sul gruppo inglese. E “The Mists Of Avalon” (1998) ci riesce in pieno, sebbene in negativo: bruttarella la copertina, che per giunta pare ammiccare al power metal che stava prendendo piede in Europa. Qualcuno gridò allo scandalo ma non escludo che i detrattori si siano fermati per l’appunto all’artwork: l’album narra avventure dal sapore medievale solo nella lunghissima canzone d’apertura, ‘The Legend’, suddivisa in cinque movimenti orbitanti attorno al ciclo arturiano, ma musicalmente non c’entra nulla col suono che ha reso noti i gruppi power europei. Gli altri brani affrontano argomenti differenti (la noiosa ‘Princess For The World’, per esempio, parla di Lady Diana) e restano fedeli all’heavy classico della band. A lasciare perplessi è semmai la piattezza del songwriting, privo di verve e di slanci emozionali né può dirsi riuscito l’avvicendamento, alla prima chitarra, tra Tony J. Liddle e l’anonimo Martin Richardson. In Italia, Ulisse Carminati di Flash! avrebbe definito “The mists of Avalon” un album vergognoso, qualche anno più tardi: un filo esagerato. Di sicuro è il loro lavoro più debole, fin lì, ma la musica della quale ci si dovrebbe vergognare è ben altra.

ABSOLUTE POWER

Dopo essersi lasciato alle spalle il noioso “The Mists Of Avalon”, il gruppo di Brian Ross ritrova la via maestra con “Absolute Power” (2002), album che vede il salutare rientro in formazione di Tony J. Liddle e un netto spostamento su sonorità più aggressive e priestiane. I passi avanti appaiono stupefacenti e si ritorna all’eccellente qualità dei lavori post-reunion. Brian Ross sfrutta adeguatamente la sua voce, raccontando storielle dell’orrore come da tradizione e dispensando acuti come ai vecchi tempi (la bellissima ‘Legion’). Ottime le due chitarre, che macinano riff a tratti potentissimi (l’accelerazione thrash nella parte centrale di ‘Dark City’ vale tutto l’album) e conferiscono il giusto tiro al disco, parecchio omogeneo sul piano qualitativo, anche se ‘We’ll Rock Forever’ e ‘Soul Stealer’ non rientrano nel novero delle migliori canzoni partorite dalla band, che pure non si farà problemi a inserirle nella tracklist dell’album dal vivo “Absolutely Live” (2004).

SINS AND GREED

I Blitzkrieg si mantengono su alti livelli con “Sins And Greed” (2005), altro album da incorniciare per attitudine e leggermente più vario a livello stilistico rispetto al precedente. Tony J. Liddle è di nuovo fuori dai giochi ma il gruppo va avanti per la sua strada a testa bassa e, all’interno di una proposta dannatamente heavy, ricorre a squisite divagazioni thrash (‘Traitors Gate’, ‘Hell Express’) senza mai rinunciare all’inclinazione melodica (‘Escape From The Village’, la ballata ‘Eyes Of The World’) presente nel DNA di ogni musicista della vecchia scuola. Un altro album sorprendente, in estrema sintesi, che forse cala un po’ nella parte finale (sotto questo aspetto “Absolute Power” gli è superiore) ma che gratificava oltremisura chi, in un’epoca che premiava vergognosamente i gruppi coi DJ in formazione, sapeva ancora godersi l’heavy metal senza star lì a pretendere che un gruppo mutasse pelle a seconda dei trend.

THEATRE OF THE DAMNED

Con l’ennesimo, nuovo chitarrista in formazione, in quegli anni i Blitzkrieg trovano in “The Last Temptation” di Alice Cooper, idolo di Brian Ross, un modello da seguire nella scrittura del nuovo “Theatre Of The Damned” (2007) e nell’amico Biff Byford un illustre co-produttore. L’album però non eccelle come i precedenti: niente da dire sulla bella doppietta posta in apertura, o su ‘Spirit Of The Legend’. Men che meno sull’atipica ‘Into The Light’, nella quale Ross sfoggia tonalità da crooner; bravissimo anche in ‘Together We Are Strong’, pezzo costruito su riff stantii ma salvato alla grande dal bridge e da un ritornello arioso e terribilmente anni ’80. Roba da lacrimuccia. Tutto il resto, però, non va oltre la sufficienza. Band ancora in carreggiata, quindi, ma con le gomme un po’ lisce.

BACK FROM HELL

Back From Hell” (2013) è il primo lavoro dei Blitzkrieg a vedere in line-up Alan, figlio di Brian Ross, alla seconda chitarra. Formazione stravolta come al solito ma proposta inalterata e soliti ripescaggi (ancora una volta ‘Buried Alive’!). L’album risulta inferiore al precedente “Theatre of the Damned” e come quello meno potente rispetto ai dischi di inizio millennio, meno frenetico (cito le chitarre acustiche di ‘V’ e l’ottimo esperimento dark di ‘Complicated Issue’). Sconta una parte centrale assai debole: noiosette la strumentale ‘4U’ e la ballad ‘One Last Time’ ma è nel tempo medio ‘Sahara’ che emerge in modo più nitido il principale limite dell’album, ovvero le chitarre poco incisive, con riff talvolta triti o derivativi (quello di ‘Sleepy Hollow’ ricorda un po’ troppo ‘Killing Ground’ dei Saxon). L’esperienza accumulata negli anni permette all’album di non andare mai a fondo, certo, ma gli impedisce anche di allontanarsi da acque conosciute e tranquille, a ridosso della riva. Nella prima parte della tracklist, nella conclusiva ‘We Have Assumed Control’ (che richiama le cose migliori di “Absolute Power”) e nei brani più tirati, però, la vecchia classe trapela ancora.

JUDGE NOT!

Dopo aver completamente ri-registrato “A Time Of Changes” in occasione del 30° anniversario, i Blitzkrieg ritrovano potenza e convinzione. In “Judge Not!” (2018) è la compattezza d’insieme, a colpire. La produzione moderna aiuta a svecchiare il sound e rafforza i brani meno heavy del lotto, ovvero ‘Loud and Proud’ (in stile AC/DC) e la semi-ballad di scuola americana ‘Without You’ (cantata discretamente da Alan Ross). Da segnalare le liriche di ‘Falling Into Darkness’, echeggianti il romanzo “Il ritratto di Dorian Gray”, e la ferocia necrofila di ‘Wide Legged and Headless’. Album fresco e ispirato, complessivamente, privo di picchi assoluti ma privo anche dei cali che avevano indebolito “Back From Hell”. La coppia di chitarre, però, in fase solista continua a non brillare, specie se rapportata a quelle che l’hanno preceduta. In Italia “Judge Not!” è passato quasi inosservato: qui da noi siamo capaci di srotolare il tappeto rosso a nullità (pseudo-metal) 2.0 provenienti dalla Svezia e dall’Oriente, gente in grado di conferire nuovi significati e nuove sfumature all’aggettivo “imbarazzante”, ma nel 2018 quest’album lo hanno recensito a malapena tre-quattro webzine.
“Eh, ma bisogna sempre guardare avanti”. Anche se quello che ci sta davanti è nettamente peggiore.


BLITZKRIEG – DISCOGRAFIA ESSENZIALE

“Blitzkrieg demo” (Demo, 1980)

“Blitzed Alive!” (Demo, 1981)

“A Time of Changes” (Full-length, 1985)

“Ten Years of Blitzkrieg” (EP, 1991)

“Unholy Trinity” (Full-length, 1995)

“Ten” (Full-length, 1996)

“The Mists of Avalon” (Full-length, 1998)

“Absolute Power” (Full-length, 2002)

“A Time of Changes – Phase 1” (Compilation, 2003)

“Absolutely Live” (Live album, 2004)

“Sins and Greed” (Full-length, 2005)

“Theatre of the Damned” (Full-length, 2007 )

“Back from Hell” (Full-length, 2013 )

“A Time of Changes: 30th Anniversary Edition” (Full-length ri-registrato, 2015)

“Judge Not!” (Full-length, 2018)

“Loud and Proud” (EP, 2019)

VIA IL CELLOPHANE PT. 19

1) Cloven Hoof, “Who Mourns for the Morning Star?” (2017)

VALUTAZIONE:

Gruppo storico della NWOBHM, di loro consiglio sempre il bellissimo esordio omonimo del 1984 e il piccolo capolavoro tardivo (1989) “A Sultan’s Ransom”. Ma i Cloven Hoof sono ancora tra noi e in gran forma, direi; di questo album ho letto solo recensioni entusiastiche e non sarò certo io ad abbassare la media. Heavy metal classico ricco di personalità, talvolta vicino al power americano, meno “modern” rispetto a quello dei loro album precedenti (a parte il brano ‘Mindmaster’, che infatti preferisco saltare) e finalmente impreziosito da un signor cantante come George Call, vero elemento aggiunto dei Cloven Hoof 4.0, in grado di raggiungere note altissime (‘I talk to the dead’) ma di risultare, all’occorrenza, aggressivo e virile come la musica proposta dalla band, infatti mi chiedo sempre come cavolo riesca, gente in giro da quarant’anni, a comporre ancora album così irruenti.
Tra le recensioni altrui segnalo quella (voto 85 su 100) di Loud and Proud:
https://loudandproud.it/cloven-hoof-who-mourns-for-the-morning-star/


2) Chrome Molly, “Hoodoo voodoo” (2017)

VALUTAZIONE:

Vecchio gruppo inglese che dopo la reunion del 2010 ha saggiamente irrobustito il suono, ora più heavy e moderno, sebbene la proposta esplori lo spettro sonoro che si colloca tra rock melodico (specie nei cori) ed heavy metal. Tutto molto piacevole senza essere eccezionale. E alla voce del cantante ci si abitua. Una proposta così retrò rimane per soli appassionati del suono a cavallo tra ’70 e ’80, per cui se non amate la NWOBHM più hard che heavy, passate oltre. Se invece apprezzate gli UFO, i Thin Lizzy e le realtà più melodiche della scena inglese di fine ’70 e inizio ’80, tipo Demon e Quartz, fateci un pensierino.
Anche questo lavoro è piaciuto proprio molto (voto 8 su 10) ai tipi di Loud and Proud:
https://loudandproud.it/chrome-molly-hoodoo-voodoo/


3) Deep Machine, “Rise of the machine” (2014)

VALUTAZIONE:

Quattro demo tra 1980 e 1983, poi nient’altro. Tornati a galla per volontà del chitarrista e membro fondatore Bob Hooker, la band giunge al sospirato esordio con “soli” trent’anni di ritardo. Considerando le premesse, mi aspettavo di più. Sì, le canzoni scorrono in modo piacevole ma senza grossi sussulti, se escludo un paio di episodi (‘Hell forest’, per esempio). Stesso discorso per la voce dello sconosciuto Lenny Baxter, nella media e non in grado di conferire una marcia in più ai brani. Buona invece la produzione e l’approccio sanguigno; la grinta c’è, le doti strumentali pure, non sembra di ascoltare un gruppo di quarant’anni fa.
Dal 2000 in poi, tantissime band sono state tirate fuori dalla naftalina e hanno realizzato un album di debutto ufficiale, io guardo sempre con simpatia a questo genere di operazioni (per me genuine: quanti soldi volete che faccia, un’etichetta, rispolverando un nome che non ricorda più nessuno da decenni?) ma il ritorno dei Deep Machine non è il primo da appuntarsi.
Gli unici ad averlo recensito in Italia sono stati gli amici di Heavy Metal Webzine, che tutto sommato sembrano concordare con me (voto 6,5 su 10):
https://www.heavymetalwebzine.it/2014/10/02/deep-machine-rise-of-the-machine-2014/


Pezzi da ascoltare per farsi un’idea degli album:



VIA IL CELLOPHANE PT. 18

1) Arrest, “Night stalker” (2004)

VALUTAZIONE:

Band tedesca ancora attiva, uno di quei gruppi che affollano la scena crucca ma che non conosce nessuno. Ho comprato il CD alla cieca, non riesco più a ricordare quando e dove, poi però è rimasto lì a prendere polvere. Ora che l’ho ascoltato posso dire che non mi stessi perdendo chissà cosa, però in campo heavy-power ho sentito decisamente di peggio. Gli Arrest hanno nel timbro vagamente alla Ozzy del cantante Alexander Weinrauch un tratto peculiare, poiché è piuttosto strano sentire una voce del genere (comunque più eclettica di quella di Ozzy, sia chiaro) in una siffatta proposta. Non è il solito album tutto cori e doppia cassa, ecco, ma un disco di heavy-power con qualche piccola raffinatezza strumentale, cosa non scontata guardando la copertina disegnata dal grande Ken Kelly. Poi non escludo che le basse aspettative di partenza mi abbiano aiutato a farmelo piacere un po’ di più.


2) Borrowed Time, “Borrowed time” (2013)

VALUTAZIONE:

Unico album per questi americani di Detroit, non più attivi. Una mezza delusione, per quanto mi riguarda: niente da dire sulla prestazione strumentale e pezzi come ‘Dawn for the glory rider’ o ‘A tytan’s chain’ sono obiettivamente di qualità superiore. Quello che mi è piaciuto poco è stata la voce di J. Priest, ex-Gatekeeper e ora cantante dei quotatissimi Traveler, troppo sottile e priva di potenza: quando ruggisce è ok, ma i suoi falsetti sono inascoltabili. L’heavy metal, se lo tingi di epico, ha bisogno di cantanti assai più dotati. Per il resto l’album si difende bene, a tratti moto bene. Eccellenti almeno due-tre assoli di chitarra, a compensare linee vocali discutibili.


3) Blackwych, “Out of control” (1986)

VALUTAZIONE:

Ok, lo ammetto: mi ha colpito la copertina, specie la guerriera biondazza e quasi nuda. Una cafonata, intendiamoci, ma una cafonata fatta bene (dal vivo è molto più bella, in foto è venuta male), ché a metà anni ’80 non era semplice imbattersi in un buon disegno, specie in ambito underground. Per quanto riguarda la musica, i Blackwych suonavano un heavy metal assolutamente basico, privo di lampi di genio nella scrittura dei pezzi o di raffinatezze strumentali. Brani come ‘Give up’ o la title track mi esaltano discretamente, non dico di no, ma alla fine parliamo pur sempre di una band di seconda fascia, un po’ primissimi Holocaust e un po’ Savage (epoca “Loose ‘n’ Lethal”). Tra l’altro i Blackwych esordirono nell’86, a NWOBHM già esaurita, e la loro proposta suonava irrimediabilmente superata. La produzione da demo non aiuta: rimangono però l’energia e l’amore per il primigenio heavy metal, che trasuda da ogni nota.


Tre brani per farsi un’idea degli album: