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Una veloce carrellata sugli ultimi CD arrivati in casa Dwight Fry, come da immagine.

1) Blue oyster cult, “Cultosaurus erectus” (hard rock, 1980)
Classico minore della formazione americana. Migliore del precedente “Mirrors”, con qualche passaggio a vuoto (la pallosa “Fallen Angel”) e con tre o quattro pezzi di gran classe, tra hard rock e pop, tra hard rock e jazz (l’incredibile “Monster”) e tra hard rock e blues (“Divine wind”). Consigliato ai fan dei Ghost e del primo Alice Cooper.

2) Rainbow, “Long live rock ‘n’ roll” (1978, hard rock)
Va beh, che ne parlo a fare. Un classico dell’hard & heavy, con “Gates of Babylon” e la mitica “Kill the king” sugli scudi.

3) Hawaii, “The native are restless” (1985, heavy metal)
Secondo album della seconda band di Marty Friedman. Decisamente meno frenetico dell’esordio, con un taglio leggermente più commerciale considerando l’anno di uscita, ma ha un sacco di belle canzoni al suo interno. “Beg for mercy” è la mia preferita, con un assolo di chitarra bellissimo.
Ne ho parlato nel primo volume di “Heavy metal – La storia mai raccontata”.

4) Saxon, “Thunderbolt” (2018, heavy metal)
Credo che gli album dei sassoni siano stati accolti talvolta con un’eccessiva dose di entusiasmo, da “Lionheart” in poi. E lo dice uno che colloca i Saxon nella cinquina dei suoi gruppi preferiti, in ambito heavy metal. A parte i singoli, due anni fa ho concesso un ascolto poco approfondito a quest’album: sarà una buona occasione per farmi un’idea più precisa.

5) Stormwitch, “Bound to be witch” (2018, heavy metal)
Dopo il superfluo “Season of the witch” non mi aspettavo un granché dalla band di Andy Much, invece questo lavoro mi è parso nettamente migliore rispetto al precedente. Una discreta sorpresa, i fan della band gli concedano un ascolto. Ho comprato il CD per verificare le buone impressioni di due anni fa.

6) Salem, “Attrition” (hard & heavy, 2018)
Questo è il tipico gruppo della NWOBHM che in Italia, anche per il sound fine anni ’70 (a cavallo tra hard rock ed heavy metal), ascoltiamo davvero in quattro gatti. Una proposta vecchia e superata ma riconoscibile, e soprattutto con un buon songwriting, che per me è ciò che conta davvero. Peccato per la voce di Simon Saxby, da sempre un po’ anonima.

7) Jag Panzer, “The deviant chord” (US power metal, 2017)
Altro album al quale, a suo tempo, non ho dedicato la giusta attenzione. Il formato fisico aiuta anche in questo. Ricordo che mi era piaciuto più di “The Scourge of the Light”, d’altronde la formazione è quella del capolavoro “The Fourth Judgement” (cuoricini per Tafolla). Vediamo se i nuovi ascolti confermeranno le impressioni del 2017.

8) Bride, “Live to die” (heavy metal, 1988)
White metal anni ’80 con le palle fumanti. Heavy, speed e thrash in allegra commistione, testi cristiani ma chissene. Gran bella copertina (Gustave Doré, mica un peracottaro qualsiasi), molto apocalittica. Comprato usato, d’importazione USA: una discreta botta di culo, visto il prezzo pagato e il fatto che si tratta di una prima stampa originale del 1988.
Di quest’album ho parlato nel secondo volume di “Heavy metal – La storia mai raccontata”.

9) Cloven Hoof, “Cloven Hoof” (heavy metal, 1984)
Uno dei miei album preferiti della NWOBHM. Epico, oscuro (avete mai letto il testo del brano eponimo?), melodico il giusto (i riff e il ritornello di “Laying down the law” rimangono in testa per ore). Piacevole la ristampa della Dissonance, purtroppo in versione digipack e coi testi e i credits riportati direttamente all’interno del cartone apribile, non in un booklet.
Di quest’album ho parlato nel primo volume di “Heavy metal – La storia mai raccontata”.

Ciao Klaus

Martedì ero nella città in cui il giovane Dwight ha frequentato l’Università e mi è capitato di transitare davanti all’edicola che, ogni due settimane, mi riforniva di riviste metal. Quella che ho amato di più è senz’altro Flash. Iniziavo la lettura dal breve editoriale del gran capo Klaus Byron, poi andavo direttamente alle recensioni. Tutto quello che c’era nel mezzo lo leggevo per ultimo.
Mi piaceva moltissimo l’alchimia tra i giornalisti, si capiva che facevano gioco di squadra. Ricordo le frecciatine calcistiche, i “Cicero vai a cagare”, le battute sull’età di Ulisse Carminati e via dicendo.

Quando la rivista prese una brutta piega mandai una lettera a Klaus chiedendogli, come lettore affezionato, di non stravolgere le caratteristiche di un giornale solido, professionale e ben fatto, che non necessitava (e neppure meritava) di essere svilito da certe integrazioni.
Lui però era convinto che l’avanzare delle webzine andasse combattuto con un rinnovamento radicale e niente, è rimasto fedele alla sua idea, solo che poi Flash è uscito di scena nell’arco di qualche numero.

Stamattina ho scoperto che Klaus Byron è morto. Ieri, all’età di 58 anni.
Tranquilli, non vi ammorberò con pesanti riflessioni sui massimi sistemi, sulle implicazioni – anche e soprattutto simboliche – che la morte di una persona che io collego inevitabilmente agli anni più belli della mia vita, e a un certo modo di fare giornalismo metal, trascina con sé. Non è il luogo giusto e neppure il momento giusto.
Per tante ragioni mi sono impantanato nella scrittura dei miei volumetti sull’heavy metal ma so già che il quinto lo dedicherò anche a Klaus, per quello che conta. Di sicuro non avrei voluto che mi fosse data questa possibilità.

P.S.
Qui sotto il ricordo di Alessandro Viti per gli amici di Sdangher. Leggetelo, è un bel ritratto, privo di svenevolezze e di retorica:

Nice Boys Don’t Play Rock ’n’ Roll ?

Di recente mi è capitato di leggere vari commenti sarcastici, o presunti tali, nei riguardi dei gruppi rock/metal più attempati, o in scarsa forma fisica, o che dedicano poca attenzione a quello che i giovini chiamano outfit. Se rientri in tali categorie non dovresti piazzarti davanti a una telecamera ma limitarti ai lyrics video: così dicono.
Ho letto critiche persino a sua maestà Eric Bloom, un tizio di 75 anni (portati molto bene) che ha ancora grinta da vendere.
Chissà come ci arriveremo, noialtri. Se ci arriveremo.

Eric Bloom

Il punto è questo: a parte i fenomeni di massa e qualche estremismo morto con gli anni ’80, nel rock duro e nel metal in generale siamo andati quasi sempre al di là dell’estetica. Solo nel nostro genere musicale un tipo come Udo avrebbe potuto far carriera. Ricordo ancora l’illuminante, verace riflessione di un giornalista italiano: “per le regole dello star system, Udo è praticamente un aborto”.

Udo


Ronnie James Dio svettava su tutto e tutti grazie alla voce e al carisma, ma coi centimetri era messo tipo Lord Farquaad. Che dire poi del giovane Alice Cooper, magro come un chiodo e con la gobba. Dee Snider se l’è cavata col make-up, Steve Dawson dei Saxon a trent’anni sembrava che ne avesse cinquanta, Blaze Bayley pare zio Fester, per non parlare dei ciccionissimi (o ex ciccionissimi) Garry Dalloway, Gerre dei Tankard, Jon Oliva, i Molly Hatchet al completo e via dicendo.

Jon Oliva

Per cui mettiamola così: chi ama i video patinati con l’estetica messa in primo piano, oggi può rivolgersi alle symphonic-dark band. Di fregna ce n’è tanta e anche bei ragazzi, mi dicono. Oppure ci sono i fenomeni di YouTube, i quali raccattano visualizzazioni in proporzione ai centimetri di pelle nuda.

Se si cerca il look trendy e curato nei minimi particolari, infine, ci si può rivolgere ai tizi della trap. O a Katy Perry.

Nel rock duro e nell’heavy metal vecchio stampo, avere un bel faccino o un chilometro di cosce non conta e non deve contare un cazzo. Triste doverlo sottolineare nel 2020. Puoi essere pelato come Satriani o capellone come Herman Li, scheletrico come Bobby Liebling o muscoloso come Ralph Scheepers, alto come Arjen Lucassen o basso come Dan Spitz. Non importa.

Conta il modo in cui suoni e canti, quello che hai da dire (se ce l’hai) e l’attitudine, la grinta che ci metti. Non si sta sul palco o davanti a una telecamera per sfilare, si sta lì per fare rock.
Le luci di scena, il make-up e Photoshop ti danno l’immagine, non il talento: la prima ci può stare ma non è essenziale, il secondo sì.