Paglia e fieno con contorno di metallo

Seguo regolarmente un mucchio di portali, lo sapete già, e tra questi c’è Sdangher, che sul finire del 2019 si è interessato a me grazie alla segnalazione di un lettore. Non so se ricordate l’intervista di Francesco Ceccamea che ne scaturì:
https://www.sdangher.com/2019/12/10/dwight-fry/

Comunque. Sapete pure che ogni tanto passo articoli e recensioni, e questa volta è stato proprio il turno di Sdangher. Dopo aver letto un po’ di roba sulla “prima Horse Zine italiana”, infatti, mi è venuta voglia di scrivere qualche riga su un tema che mi sta a cuore, e che in qualche modo vuole ribaltare un atteggiamento (per qualcuno fastidioso, per me tra il buffo e il grottesco) assai diffuso, e che nell’articolo ho sintetizzato così:

In campo metal […] da un po’ di tempo a questa parte va di moda attaccare chi dimostra un interesse e una perseveranza superiori alla media. Sembra sia diventato un peccato di lesa maestà amare l’atmosfera che si respira ai concerti, comprare musica fisica, addentrarsi, approfondire, ripagare con l’acquisto di una maglietta chi ci regala (o ci ha regalato in passato) grandi emozioni.

Il resto dell’articolo lo trovate qui, ovviamente ringrazio i ragazzi di Sdangher per l’ospitalità:
https://www.sdangher.com/2020/02/27/tagliapietre/

Stigmata,“Hollow Dreams” (recensione)

L’altro giorno, scherzando, ho citato su Facebook il metal dello Sri Lanka. Ebbene, settimane addietro mi sono davvero imbattuto in una band di quelle zone, gli Stigmata, dei quali ho ascoltato i primi due album per via dei volumetti sull’heavy classico.

Il problema, quando si parla di gruppi sconosciuti e lontani geograficamente, è che spesso si trovano in giro descrizioni fuorvianti se non del tutto inesatte. Mi capita quindi di ascoltare musica che poi non finisce nei miei libri, in quanto eccessivamente distante dai generi trattati. Gli Stigmata sono uno di questi. Su Metal Archives vengono descritti come gruppo “heavy/power”. Ma anche no! Ignoro cos’abbiano combinato dal 2010 in poi ma i primi due album non sono affatto heavy-power, tant’è che ho deciso di escluderli dal quinto e dal sesto volume. Però avevo iniziato a scriverne e mi dispiace che quel lavoro vada perso, tanto più che a me “Hollow Dreams” piace.
Pubblico dunque una piccola recensione del primo album, con qualche accenno al secondo.
Buon lettura.

Stigmata,“Hollow Dreams” (2003)

Agli inizi del nuovo decennio esordirono nell’estremo oriente gli Stigmata, dallo Sri Lanka, autori di un dischetto nel suo piccolo interessante come “Hollow Dreams” (2003). Specifico subito che la produzione è povera; che l’album è autoprodotto e si trova facilmente solo su YouTube; che il metal classico c’è ma a piccole dosi, tant’è che all’inizio pare di ascoltare un album di rock alternativo (“Thicker than blood” cita spudoratamente il riff di “Smells like teen spirit”) e roots rock vitaminizzato (la title track sembra una versione metal di “Rockin’ in a free world”). Addentrandosi nell’ascolto, però, la musica muta e si fa più complessa, in particolare dalla strumentale “Andura” in poi, con assoli vanhaleniani di buona fattura e una parte finale di scuola Iron Maiden.
La band suonava decisamente bene e Suresh De Silva dimostrava di possedere una bella voce, specie nell’incipit di “Stigmatized”, pezzo lunghissimo e dalle tante anime, tra le quali una strettamente heavy nei lunghi assoli di scuola NWOBHM (ricordano alla lontana quelli degli olandesi Vanderbuyst). Peccato per i vocalizzi estremi, per nulla indispensabili, ma già qui si avverte la sensazione che i cingalesi volessero in qualche modo avvicinarsi agli Orphaned Land attraverso il mix di approcci diversi, dal prog (la ballata “The Dying Winter Sleeps”, altro pezzo in cui De Silva se la cava egregiamente) al power americano (“Dezra”), dal rock tradizionale o alternativo (“Falling Away”, “Inspired”) all’hard rock (“Voices”) fino all’hardcore/thrash (“Extinction”), tuttavia questo miscuglio non risultava sempre di facile assimilazione e soprattutto rischiava di spiazzare i fan dell’heavy più ortodosso. Inutile quindi dilungarsi, se non per sottolineare che fin dall’esordio gli Stigmata lasciarono la sensazione che valesse la pena sperare in una crescita in senso heavy del loro sound, inizialmente stratificato e per lunghi tratti semplicemente rock, ma sempre godibile.

Nel secondo album, “Silent Chaos Serpentine” (2006), si spostarono invece su un thrash/death melodico che sembrava pescare dagli In Flames di fine anni ’90, ancora una volta incentrato sulle melodie e con molti passaggi in voce pulita, ma l’indurimento risultò palese e stupefacente, d’altronde bastava far partire il primo pezzo (“Swinemaker”) per essere travolti da riff ultra distorti e doppia cassa martellante. In questo album la matrice heavy e US power risultava ancora presente, né gli Stigmata mancarono l’occasione di inserire variazioni atipiche, ma nel complesso le sonorità del primo album erano state accantonate in favore di un approccio molto più rude e omogeneo, con risultati che lascio valutare a chi conosce meglio di me il metal estremo e in particolare la scena di Goteborg.

Strappati di casa

Mi hanno mostrato un video in cui Red Ronnie s’incazza a morte con un rapper, un tale che è andato a Sanremo e che riempie i suoi testi (dicono) di inni sessisti. Non ricordo il nome e non mi metto a cercarlo, non è una cosa importante. Sarà qualcuno che in vita sua ha visto molte puntate di Gomorra, immagino. E letto tutti i libri di Thomas Prostata.

Red Ronnie sostiene che a Sanremo uno così non avrebbero dovuto ammetterlo, perché se i ragazzi lo guardano e lo ascoltano poi c’è il rischio che vadano in giro a violentare ragazze o qualcosa del genere. La sua preoccupazione è che il messaggio sbagliato non solo filtri, ma permanga e agisca.

Ora: io su questo argomento mi sento combattuto. Da un lato detesto la trap e quindi sarei ben lieto di vederla sparire dalla faccia della terra, dall’altro certi discorsi mi ricordano quelli che facevano a me da ragazzo, tipo che se guardi gli horror c’è il rischio che poi prendi un coltello e ammazzi qualcuno. O che se ascolti Marylin Manson (mi guardavo bene dal farlo, ma per altri motivi) poi diventi satanista.

Roba del genere.

Quindi: metti che uno violenta davvero una ragazzina dopo aver passato la serata ad ascoltare quel musicista trap… noialtri che facciamo? Allunghiamo il ditino per accusare? No, chiedo. Perché io me li ricordo i vari mio figlio si è ucciso dopo aver ascoltato ‘Suicide solution’ di Ozzy oppure la Strage della Columbine è dipesa dal fatto che i due assassini ascoltassero i Rammstein. E davanti a fesserie del genere mi indignavo.
Ora dietro al banco degli imputati si è accomodato un altro genere musicale. Noi che facciamo?

Mi ha fatto sorridere un commento che ho letto su YouTube, sotto al video di Red Ronnie, in cui un utente scriveva giustappunto: “Ah, che bello quando non esistevano gli stupri perché si ascoltava Claudio Villa!”.

Sento e leggo di gente che parla di “bambini da salvaguardare” ma credo sia la solita retorica alla Helen Lovejoy. Cioè, non puoi salvaguardare tuo figlio mostrandogli Sanremo, con o senza trap. È un controsenso.

E comunque non è tenendo questi rapper lontano dalla tivù che risolveranno qualcosa, tanto più che i ragazzi oggi stanno sempre davanti al cellulare e quella è zona franca. Aggiungo che, per quanto mi riguarda, far salire un musicista sul palco di Sanremo è il miglior modo per screditarlo, quindi benissimo così.

Infine un promemoria storico: la musica rock ingaggiò una battaglia contro i benpensanti, negli anni ’80, quando davvero il diritto di parola fu messo in pericolo. Contro i promotori (il famigerato PMRC, un miscuglio di casalinghe frigide e politici sempre pronti a cavalcare l’onda del perbenismo) agirono la dialettica e la sfacciataggine tipiche del rock ‘n’ roll.

Il più strenuo oppositore dei censori fu l’immenso Frank Zappa. Red Ronnie ama Zappa, dice in giro che negli anni ’80 divennero amici, per cui mi domando che cosa direbbe se qualcuno gli mostrasse questo vecchio filmato (1986) sulla libertà di espressione:

School’s (NOT) out

Nella recensione di un vecchio album degli Skylark, l’altro giorno, ho potuto leggere su Metallized il seguente commento:

molti hanno criticato gli Skylark… per me dotati mille volte di più di originalità rispetto a gente che viene ritenuta mastodontica tipo Alice Cooper o Motorhead che non ascolterei nemmeno sotto tortura!

Puerile lodare una band per screditarne altre (a che pro?), e del tutto insensato accostare musicisti a tal punto distanti fra loro, ma sui gusti c’è poco da obiettare: se un musicista o un gruppo non ti piace, non è che puoi fartelo piacere con la forza.

Però è strano, dire che un gruppo non lo si vuole ascoltare neppure sotto tortura e al contempo giudicarlo “meno originale” rispetto ad altre realtà: come si può esprimere una valutazione sensata su qualcosa che non si conosce, o del quale si è ascoltato di malavoglia qualche pezzo sparso?

Per qualche strano motivo l’utente infierisce su Alice Cooper, che deve stargli ampiamente antipatico:

Alice Cooper… ( avrà fatto le elementari?)

Anche qui è possibile rintracciare un che di puerile: da quando in qua il titolo di studio conta qualcosa, in campo musicale? Hendrix si fermò al diploma di terza media. Lennon era una mezzasega, a scuola: collezionò bocciature. Ritchie Blackmore e Robert Plant abbandonarono gli studi a 15 anni.
Potrei andare avanti per ore.

Comunque, visto che è stata posta una domanda ben precisa (“Alice Cooper avrà fatto le elementari?”), l’esperto risponde: sì, le ha fatte. Inizialmente ad Havenhurst, Missouri. Nel 1955, però, la famiglia si trasferì in California e le terminò lì. In seguito si sarebbero spostati in Arizona, ed è qui che Alice fu iscritto alle medie. Era il ’62, andò alla Squaw Peak Junior High. Prendeva bei voti, non ebbe problemi a superarle e quindi a iscriversi alle superiori. Prima la Camelback High, poi la Cortez High. In seguito sarebbero sopraggiunti la guerra del Vietnam e il successo musicale, quindi che io ricordi non si è mai iscritto al College, ma gli resta il diploma di scuola Superiore.

Per meriti artistici gli hanno assegnato due lauree honoris causa: una dalla Grand Canyon University di Phoenix e l’altra dal Musician’s Institute di Los Angeles.

Spero di essere stato utile a derimere la questione.

Aggiungo che artisti di fama internazionale… quelli che si studiano all’università, per capirci… hanno espresso tutta la loro stima nei riguardi di Alice Cooper. Andy Warhol, per esempio.

Oppure Salvador Dalì, che nel ’73 avrebbe realizzato un’opera artistica dedicata a Alice Cooper, un ologramma per la precisione.
Robetta, in fondo chi non ha un’opera di Dalì con tanto di dedica, a casa? O almeno una foto-ricordo.

Lascio l’ultima parola a Eddy Antonini, fondatore e anima degli Skylark nonché profondo conoscitore della storia del rock duro, il quale dichiarò in un’intervista del febbraio 2002 su Flash (pag. 27, numero 157):

“Sono dispiaciuto per i giovani d’oggi. Io quando ero teenager sono stato più fortunato e ascoltavo ‘The number of the beast’, ‘Master of puppets’, ‘Keeper of the seventh keys’, mentre se volevo del buon hard rock mi buttavo sugli Scorpions, sugli Europe, su quel capolavoro che è ‘Trash’ di Alice Cooper”.

Nessuna sorpresa. Accade spesso, che i musicisti si rivelino molto più saggi e preparati dei loro stessi fan…

Happy Birthday Mister President

Si era capito che adoro Alice Cooper?
No?
Va beh, io per rafforzare il concetto ho preparato qualcosina per oggi, giorno del suo 72° compleanno. Più che una zia, Alice ormai è una nonna ma… non so che diavolo gli è preso, perché negli ultimi anni è apparso in forma smagliante.
Non balla come un Mick Jagger, non l’ha mai fatto, però graffia parecchio. Anche in studio.

Mick Jagger si prepara per la festa di Alice

Difficile, come fan, stargli dietro. Sto attraversando un periodo incasinato ma la settimana scorsa ho trovato il tempo per buttare giù un omaggio-compendio e una recensione.
Avrei voluto fare di più (l’idea era quella di scrivere almeno un’altra recensione), tuttavia il passato è dalla mia parte e quindi posso dire di aver già fatto molto, come scribacchino, per il nostro amato artista.

Ecco qui il compendio:

https://metalitalia.com/articolo/dwight-fry-un-omaggio-ad-alice-cooper-dallautore-di-heavy-metal-la-storia-mai-raccontata/

L’hanno pubblicato gli amici di Metal Italia, che ringrazio di cuore (specie Simone Vavalà) per lo spazio concesso. Avevo spedito solo l’articolo, loro sono stati così gentili da anteporre un cappello promozionale (oggi lo chiamano “lead” ma io sono vecchio e preferisco la lingua italiana).

Un altro portale che devo ringraziare è Heavy Metal Webzine, al quale ho passato la recensione di “The last temptation”, assente nel suo ricco database:

https://www.heavymetalwebzine.it/2020/02/04/alice-cooper-the-last-temptation-1994/

Parliamo di un album molto bello e poco noto, forse il più sottovalutato assieme a “DaDa” e “Muscle of love”. Ma non voglio anticipare quanto già scritto. Mi limito a ringraziare, oltre al sito, anche il vice caporedattore Gianluca Moraschi.

Concludo citando un paio di articoli, neppure troppo vecchi, che mesi fa mi hanno pubblicato i ragazzi di True Metal. Purtroppo il recente restyling del sito ha piazzato un punto interrogativo al posto delle virgolette e delle lettere accentate, per cui la lettura non è molto agevole, ma se scorrete i due articoli verso il basso troverete diversi link interessanti (in rosso, anche se io avevo utilizzato il colore giallo).
Nel primo speciale:

https://www.truemetal.it/articoli/speciale-la-donna-piu-orrenda-che-abbia-mai-visto

avevo consigliato 10 pezzi, tra quelli più heavy, realizzati da Alice Cooper nella sua lunghissima carriera. Nel secondo, invece:

https://www.truemetal.it/articoli/speciale-non-piaccio-a-nessuno

mi ero divertito a elencare i brani più eccentrici, lontani dall’heavy e vicini al jazz, al blues, al musical.

Date un’occhiata, se avete tempo. Scegliete voi cosa leggere. Per me, oggi, ciò che conta è omaggiare un artista che – assieme a pochi altri – mi ha insegnato il gusto del macabro, l’eclettismo musicale e la possibilità di unire i due approcci in un insieme chiassoso, colorato, ironico e tetro. Una sintesi impossibile, sulla carta, ma non era proprio lui a sussurrare “I’m a killer, I’m a clown” dieci anni prima che Stephen King inventasse Pennywise (e vent’anni prima che la produzione della miniserie del 1990 lo prendesse in considerazione per fargli interpretare quel ruolo)?

E allora grazie di tutto, Alice, e buon compleanno.