Litfiba, “Terremoto” (1993)

Alcuni musicisti e alcuni gruppi di grande successo sembrano attirare fan più esaltati della norma. I Queen, per esempio. Per non parlare di Vasco.

Poi c’è una tipologia particolare di fan, quella composta da “esaltati nostalgici”: fan sfegatati che però si sono pentiti nel tempo e che oggi rievocano con toni accesi la superiorità di una band che ha dato il massimo nei primissimi tempi. Chi ha continuato a seguirli anche in seguito è un incompetente o un masochista.
Esempi classici? Metallica, Genesis, Scorpions, ma anche primi Litfiba.

Guardatevi bene dal proporre a un fan stagionato (età minima: 45 anni) della formazione toscana un album che la band ha realizzato dopo il 1988, perché non vi seguirà. Attaccherà con la storia che senza Maroccolo non erano più i veri Litifiba, che a livello di arrangiamenti la band aveva perso moltissimo, che l’abbandono delle sonorità new wave in favore di quelle hard rock aveva sottratto fascino alla proposta del gruppo, ora molto più commerciale, eccetera.

Tutte argomentazioni validissime. Peccato che quando parte “Maudit” io non capisco più nulla. Perché ho conosciuto i Litfiba nel 1990, non negli anni ’80, e la prospettiva cambia.

Erano i tempi di “El Diablo”. Me lo ricordo benissimo quel video girato in una specie di arena, con un tamarro dai lunghi basettoni che cantava il paradiso è un’astuta bugia; al tempo era lo spauracchio dei genitori anti-rock, vuoi che la cosa non avesse effetto su un neo-adolescente?
Ricordo la mia brava musicassetta al ferro, da un lato c’era “El Diablo” e dall’altro il meraviglioso live “Pirata”. Album consumati.

Poi mi duplicarono “Terremoto”, che all’inizio avevo un po’ snobbato. No, non per disinteresse, al contrario: per eccesso di interesse nei riguardi della musica, non riuscivo a star dietro a tutto/i. Quello era il periodo in cui vagavo senza meta, affamato di rock ‘n’ roll, da un genere all’altro, da un artista/gruppo a un altro artista/gruppo.

I fan dei Litfiba nati a inizio anni ’70 già si erano lamentati di “El Diablo” e quando arrivò “Terremoto” persero tutte le speranze. Sono diventati dei metallari, dicevano con un pizzico di disgusto, quindi io ci andavo a nozze perché l’heavy metal lo stavo esplorando con interesse.
Vuoi mettere poi un album che inizia con “Dimmi il nome”? Ero rimasto sconvolto dagli omicidi di Falcone e Borsellino e quel brano mi regalava perle come “Non è la fame ma è l’ignoranza che uccide”. Su un adolescente, frasi del genere avevano una presa micidiale.

Da un certo punto in poi Piero Pelù mi ha sempre dato l’idea di essere diventato una specie di Pino Scotto più teatrale e raffinato (il che è tutto dire), specie dal vivo, ma le sue capacità di scrittura appaiono di un livello superiore anche in quest’album. Nelle denunce sociali più marcate (“Maudit”) resta a un passo dal qualunquismo, ma era il qualunquismo di un trentenne incazzato che aveva appena visto esplodere Tangentopoli e bombe al tritolo (a Capaci e in via D’Amelio). E io con lui.

Il suo approccio alla scrittura, comunque, era formalmente perfetto, metaforico e linguisticamente ricchissimo; l’approccio aforistico non soverchiava mai il gusto per la frase ricercata, acuta, un mix perfetto di sintassi e melodia.

Il testo di “Firenze sogna”, per esempio, poteva scriverlo solo lui e marcava la distanza siderale, nel songwriting, da celebri provincialotti come Ligabue e Vasco Rossi; “Fata Morgana”, con un altro arrangiamento, avrebbe potuto trovare spazio in “Lifiba 3”. Ispirato al Buzzati del “Deserto dei Tartari” è la ballata antimilitarista “Prima guardia” (capolavoro nascosto dell’album), invece “Il mistero di Giulia” è una specie di corpo estraneo, nel contesto, non tanto musicalmente (grandi riff anche qui, e un assolo metal sporchissimo da antologia, ma è quell’inizio jazzato a valere tutto il pezzo) quanto per il testo, spassoso o stupidotto a seconda dei punti di vista. Forse entrambi.

Un pezzo come “Dinosauro”, infine, ha quella carica metal (da notare il logo in modalità Metallica che campeggia in cima alla copertina) che serpeggia in tutto l’album e che conosce il suo acme nella conclusiva “Sotto il vulcano”, tesa nelle strofe e con un ritornello spalmato su un riff da headbanging furioso.

Come tutti gli album della mia adolescenza, conosco ogni singola parola e ogni singola nota di questo album. Non annovero i Litfiba tra i miei gruppi preferiti per cui mi frega poco di quello che sono diventati successivamente, ma nel periodo 1989-1993 sono stati una band capace di introdurre alla musica dura un mucchio di pischelli e hanno sfornato lavori che i fan del rock-metal più giovani dovrebbero riscoprire.

Anche quelli del periodo 1989-1993, sì.

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