2019: un anno di heavy metal

Buonissima annata heavy, il 2019. Tanti gli album ascoltati (se cliccate sui titoli sottolineati potrete leggere le relative, brevi recensioni che ho scritto qui nel blog durante l’anno), ma sono tanti anche gli album che, seppure a malincuore, non ho potuto ascoltare per le ragioni che spiegherò in chiusura.

Ma entriamo nei dettagli.

Più che buono il ritorno degli Slough Feg con “New Organon”: dopo quasi 25 anni di carriera non si poteva chiedere di più, a Mike Scalzi. Ottimi anche i Diamond Head di “The coffin train”, a conferma della giusta via intrapresa col nuovo (e bravo) cantante. Mi sono piaciuti molto i Tanith di “In another time” (un tuffo credibilissimo nell’hard & heavy di fine anni ’60 inizio anni ’70: profuma di Uriah Heep già dalla copertina), i bravissimi Crypt Sermon di “The Ruins Of Fading Light” e il debutto omonimo dei Sangreal, realtà musicale di carattere e caratura internazionale ma nella quale il cuore pulsante è quello, italianissimo, di Gabriele “Nightcomer” Grilli, mai dimenticato primo cantante dei DoomSword.

Discreti i Them di “Manor of the Se7en Gables”, ma devo ammettere che con loro la scintilla non è scattata. Meglio i Fil di Ferro di “Wolfblood”, una delle ultime sorprese dell’anno.

Ascoltate poco ma piaciute al volo le ultime fatiche degli Angel Witch (“Angel of light”), dei TIR (“Metal Shock”) e dei RAM (“The Throne Within”); gli Atlantean Codex mi hanno ripagato della lunga attesa con “The Course of Empire” e hanno riscosso meritato successo gli Idle Hands di “Mana”.

Sorprese: davvero bravi gli Haunt di “If Icarus Could Fly”; i grezzissimi Pounder, con “Uncivilized”, hanno preso a martellate i miei padiglioni auricolari ma ogni tanto qualcosa di così ignorante ci vuole. Bene anche i Blade Killer, convincenti col semplice ma efficace “High risk”.

Dovrei invece riascoltare Candlemass (“The door to doom”), Riot City (“Burn the night”) e Booze Control (“Forgotten lands”) ma a un ascolto superficiale le buone vibrazioni non sono mancate affatto.

Delusioni? Mah, non mi hanno entusiasmato gli Enforcer, il loro “Zenith” è troppo soft per i miei gusti, ma non me la sento di bocciarli perché rimangono una band davvero abile. Mi ha lasciato un po’ freddino anche il nuovo singolo dei Leatherwolf, “The Henchmen”, che non mi fa ben sperare per il futuro in materia di linee vocali (il nuovo cantante non mi convince), laddove non ho il minimo dubbio sulla qualità del comparto chitarristico. Niente di che pure “Nabbed in Nebraska” degli Anvil.

A proposito di singoli: tra quelli del 2019 ricordo con piacere il video della bellissima “Eagle spirit” di Blaze Bayley, seppure estratto da un album pubblicato nel 2018, ovvero “The redemption of William Black”:

E in virtù della simpatia che mi ispirano vorrei citare la canzone natalizia dei Nanowar, “Valhalleluja”:

Speranze per il 2020? Attendo con curiosità i ritorni di Saxon, Ironsword (dopo ben 5 anni), Wolf e Haunt. Poi si sa, molte band potrebbero venir fuori all’improvviso con qualcosa di nuovo; quelli che ho citato sono già stati annunciati ma altri si aggregheranno di sicuro. Poche le speranze nei riguardi del prossimo album degli Anvil, invece.

Non ho avuto modo di sentire neppure una volta, in questo 2019, i Pretty Maids di “Undress Your Madness” (però i singoli non mi erano piaciuti un granché) né gli Skanners (“Temptation”) né il live dei Cirith Ungol (I’m Alive”) né gli Smoulder (“Times of Obscene Evil and Wild Daring”) né i Lunar Shadow (The Smokeless Fires”) né… tanti altri gruppi dietro ai quali è impossibile tenere il passo.

Qualcuno ridia un senso al concetto di “etichetta discografica” o depositi un decreto legge che impedisca ai gruppi di pubblicare materiale nuovo a distanza ravvicinata dal vecchio. C’è troppa roba in giro e la gente, anche quella che è solita ascoltare musica in maniera seria, fa una fatica boia e tende sempre più a concedere ascolti giocoforza frettolosi.

Non dico di seguire l’esempio dei Tool, che ne hanno fatto una questione di (abile) marketing, ma ci sarà una felice via di mezzo, no?

Chiudersi in uno studio solo per timbrare il cartellino e poi tornare di corsa on stage è una prassi che non gioverà a nessuno, sulla lunga distanza. O almeno io la vedo così.